La Terza Sezione Penale della Corte di cassazione, nella sentenza allegata, affronta il tema del rapporto tra i provvedimenti di sequestro e confisca del profitto del reato e la procedura fallimentare allorquando i provvedimenti di sequestro e confisca riguardino beni destinati a divenire di pertinenza della massa attiva di un fallimento.
La vicenda riguardava una Società per Azioni nei confronti della quale era stato contestato il reato di omesso versamento dell’Iva, ai sensi dell’articolo 10 ter, decreto legislativo n.74\2000, circostanza che aveva determinato il Gip territoriale a disporre il sequestro di rilevanti somme di denaro depositate sui conti correnti della società.
Poiché la società, nelle more, aveva avviato una procedura di concordato preventivo nell’ambito della quale il Tribunale Fallimentare aveva disposto il versamento di una somma pari ad €. 200.000,00, di gran lunga inferiore rispetto a quanto oggetto di sequestro penale finalizzato alla confisca (pari, invece, a circa €. 600.000,00), la società presentava, per il tramite del proprio difensore, istanza di dissequestro parziale delle somme in vinculis, al solo fine di garantire il deposito della somma eventualmente dissequestrata nella procedura di concordato preventivo, evitando, così, il fallimento della società. Avverso il rigetto dell’istanza da parte dei giudici aditi, esaurendo tutte le impugnazioni incidentali, la questio iuris approdava al supremo Collegio, che, richiamando la giurisprudenza delle SS.UU., segnatamente la sentenza n. 11170\2015 Uniland, affermava che la protezione accordata dall’ordinamento dei diritti del danneggiato dal reato e dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede, non poteva riguardare “diritti di credito” eventualmente vantati da terzi, statuendo la preminenza della confisca sui diritti dei creditori.
La Corte di cassazione ha, in sostanza, affermato che la disciplina positiva non parla di salvaguardia dei diritti di credito proprio perché si intendono salvaguardare soltanto i beni che, seppure provento di illecito, appartengano a terzi estranei al reato o, meglio, all’illecito commesso dall’ente (l’articolo 240 terzo comma c. p., d’altra parte, utilizza l’espressione “cose appartenenti“).
Il giudice penale, dunque nel disporre il sequestro o la confisca, dovrà valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede.
Il supremo Collegio, nel ritenere corretta l’impostazione dei giudici territoriali e, dunque, legittimo il rigetto dell’istanza di dissequestro, chiarisce, ancora, che coloro che si insinuano nel fallimento, vantando un diritto di credito, non possono essere ritenuti, per tale solo fatto, titolari di un diritto reale sul bene, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare.
Il curatore, nel contempo, individuerà tutti i beni che devono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere all’assegnazione dei beni ai creditori. Soltanto in questo momento, pertanto, i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate.
Il creditore che non abbia ancora ottenuto l’assegnazione del bene a conclusione della procedura concorsuale, in definitiva, non può assolutamente essere considerato “terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede” perché prima di tale momento egli vanta una semplice pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale sul bene. Per tale motivo, perciò, legittimamente sugli stessi beni potranno insistere il sequestro penale prima e la confisca poi.
Nota redazionale a cura dell’avv. Marco Salerno