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Cassazione penale Sez. Un. 26/06/2014 N. 32351 CONTRAVVENZIONE – Estinzione per oblazione – – in genere

SS.UU. N. 32351 DEL 22 LUGLIO 2014

Nella sentenza del 22.07.2014 n. 32351 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato l’interessante questione concernente l’applicabilità dell’oblazione all’ipotesi in cui l’originaria contestazione, elevata nel capo di imputazione e relativa ad un reato per il quale non è consentita né l’oblazione ordinaria ex art. 162 c.p., né quella speciale di cui all’art. 162 bis c.p., con la sentenza, viene modificata dal giudice, che, provvede d’ufficio, ai sensi dell’art. 521, co. 1, c.p.p., ad attribuire al fatto una diversa qualificazione, che, invece, consentirebbe l’applicazione del beneficio. La vicenda, dalla quale è scaturita la sentenza in commento delle SS.UU., riguardava l’ipotesi in cui l’imputato era stato tratto a giudizio per la violazione dell’art. 44, lett. b) del D.P.R. N. 380/2001, mentre poi era stato condannato per il reato meno grave previsto nella lettera a). Conseguentemente, in sostanza, con il ricorso per cassazione avverso detta sentenza, il difensore dell’imputato si doleva del fatto che la sentenza impugnata, avendo riqualificato il reato sussumendolo nell’ambito di una fattispecie che avrebbe potuto essere definita con l’oblazione, era censurabile nella parte in cui aveva irrimediabilmente precluso all’imputato la possibilità di accedere all’oblazione.

Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato trasmesso dalla terza sezione penale, originaria assegnataria, è del seguente tenore: “Se la restituzione nel termine per proporre la domanda di oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la modifica della imputazione avvenga ad opera del pubblico ministero ovvero anche nella ipotesi in cui sia il giudice ad attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, che consenta l’applicazione dell’oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta dell’imputato”.

A tal riguardo le Sezioni Unite, dopo aver operato un’attenta e profonda disamina dei diversi orientamenti ed affrontato in maniera puntuale la connessa problematica della modifica del capo di imputazione, ha affermato il seguente principio di diritto “Ove la contestazione elevata nei confronti dell’imputato faccia riferimento ad un reato per il quale non e’ consentita ne’ l’oblazione ordinaria di cui all’articolo 162 c.p., ne’ quella speciale di cui all’articolo 162 bis c.p., qualora l’imputato ritenga non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all’articolo 141 disp. att. c.p.p., e’ onere dell’imputato stesso formulare istanza di ammissione all’oblazione in rapporto alla diversa qualificazione che contestualmente solleciti al giudice di definire, con la conseguenza che – in mancanza di tale richiesta – il diritto a fruire della oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio, a norma dell’articolo 521 c.p.p., comma 1, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio, con la sentenza che definisce il giudizio”.

In conclusione, dalla suddetta pronuncia emerge che è onere dell’imputato, laddove ritenga non corretta la qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione, rappresentarlo al Giudice in contraddittorio con il P.M. e formulare, a pena di decadenza, rispetto a tale ritenuta diversa formulazione giuridica, istanza di oblazione. In assenza di tale richiesta, infatti, l’imputato non potrebbe più beneficiare di tale diritto, laddove il giudice provveda d’ufficio con la sentenza, ai sensi dell’art. 521, 1°co., c.p.p., ad assegnare al fatto una diversa qualificazione giuridica, che consentirebbe l’applicazione del suddetto beneficio.

Massima a cura dell’Avv. Carla Lauretano

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Art. 2 D.Lvo 74/2000 (cd false fatturazioni) – responsabilità precedente amministratore – commento avv. Fabio Sorà

Pubblichiamo un commento dell’avv. Fabio Sorà sulla sentenza n. 2402\2014 pronunciata dalla Corte di appello salernitana in materia di violazione dell’art. 2 del D.Lvo 74\2000.

La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di appello riguarda un amministratore di una società a responsabilità limitata, in carica fino al 10.09.06, ritenuto penalmente responsabile in concorso con il rappresentate legale pro tempore, del reato di fraudolenta dichiarazione mediante uso di fatture per prestazioni inesistenti di cui all’art. 2 D.Lvo 74/2000 (cd false fatturazioni) indicate nella dichiarazione dei redditi presentata all’Agenzia delle Entrate il 26.09.07, quando era in carica, da circa un anno, un altro legale rappresentate.

Avv. Marco Salerno

commento Avv. Fabio Sorà

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SS.UU.12228\2013 Reati contro la P.A. – Concussione – Induzione indebita – Corruzione – Criteri discretivi.

Questi i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, a norma dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3,:

– “il reato di cui all’art. 317 c.p., come novellato dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o – più di frequente – mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione, senza tuttavia annullarla del tutto, della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio indebito per sè, è posto di fronte all’alternativa secca di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito”;

– “il reato di cui all’art. 319 quater c.p., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, è designato dall’abuso induttivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, vale a dire da una condotta di persuasione, di suggestione, di inganno (purché quest’ultimo non si risolva in induzione in errore sulla doverosità della dazione), di pressione morale, con più tenue valore condizionante la libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, il che lo pone in una posizione di complicità col pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione”;

– “nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l’induzione indebita (la c.d. zona grigia dell’abuso della qualità, della prospettazione di un male indeterminato, della minaccia-offerta, dell’esercizio del potere discrezionale, del bilanciamento tra beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale), i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica all’interno della vicenda concreta, individuando, all’esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti”;

– “v’è continuità normativa, quanto al pubblico ufficiale, tra la previgente concussione per costrizione e il novellato art. 317 c.p., la cui formulazione è del tutto sovrapponibile, sotto il profilo strutturale, alla prima, con l’effetto che, in relazione ai fatti pregressi, va applicato il più favorevole trattamento sanzionatorio previsto dalla vecchia norma”;

– “l’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio, illecito attualmente estraneo allo statuto dei reati contro pubblica amministrazione, è in continuità normativa, sotto il profilo strutturale, con altre fattispecie incriminatrici di diritto comune, quali, a seconda dei casi concreti, l’estorsione, la violenza privata, la violenza sessuale (artt. 629, 610 e 609 bis, con l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 9);

– “sussiste continuità normativa, quanto alla posizione del pubblico agente, tra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p., e il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater c.p., considerato che la pur prevista punibilità, in quest’ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell’abuso induttivo, ferma restando, per i fatti pregressi, l’applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma”;

– “il reato di concussione e quello di induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti”;

– “Il tentativo di induzione indebita, in particolare, si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva di cui all’art. 322 c.p., commi 3 e 4, perché, mentre quest’ultima fattispecie s’inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori”.

Nella sentenza si delineano anche i concetti di

A)    Abuso della qualità o della funzione

L’abuso della qualità o della funzione integra un elemento essenziale e qualificante delle condotte di costrizione e induzione — punite, rispettivamente, dagli articoli 317 e 319 quater c.p. — nel senso che costituisce lo strumento attraverso il quale l’agente pubblico innesca il processo causale che conduce all’evento, vale a dire la dazione o la promessa dell’indebito.

L’abuso della qualità (c.d. « abuso soggettivo ») consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione, da parte di costui, della propria qualifica soggettiva, senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio. Tale strumentalizzazione — che deve sempre concretizzarsi in un facere, non essendo configurabile in forma omissiva — fa sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute.

L’abuso dei poteri (c.d. « abuso oggettivo ») consiste nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, che vengono esercitati in modo distorto, per uno scopo oggettivamente diverso e in violazione delle regole di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Tale abuso — che si realizza anche in forma omissiva, tanto nell’attività vincolata che in quella discrezionale — può verificarsi: in caso di esercizio dei poteri fuori dei casi previsti dalla legge; in caso di mancato esercizio dei poteri quando sarebbe doveroso esercitarli; in caso di esercizio dei poteri in modo difforme da quello dovuto; in caso di minaccia di una delle situazioni appena richiamate.

B)     Concussione

Per la configurabilità della concussione, l’abuso costrittivo — che indica una eterodeterminazione della volontà della vittima, obbligata a compiere un’azione che altrimenti non avrebbe compiuto o ad astenersi da un’azione che avrebbe altrimenti compiuto — pone la vittima di fronte all’alternativa secca di aderire all’indebita richiesta oppure di subire le conseguenze negative di un suo rifiuto, restringendone notevolmente, ma senza annullarlo del tutto, il potere di autodeterminazione.

La costrizione va enucleata dalla combinazione dei comportamenti dell’intraneus — generati dall’abuso di qualità o dei poteri — con la conseguenziale condizione del soggetto passivo, la cui posizione è caratterizzata dalla sostanziale mancanza di qualsiasi alternativa e dal non essere animato dallo scopo di ottenere un vantaggio indebito.

C)     Induzione

L’induzione, nell’ambito dell’art. 319 quater c.p., spiega una funzione di selettività residuale rispetto alla concussione, nel senso che copre quegli spazi non riferibili alla costrizione, designando l’alterazione del processo volitivo di un soggetto che, pur condizionato da un approccio non paritario, conserva ampi margini decisionali.

Le modalità della condotta induttiva si configurano, in positivo, nella persuasione, nella suggestione, nell’allusione, nel silenzio, nell’inganno, anche variamente combinati tra loro, sempre che, in negativo, gli atteggiamenti dell’agente pubblico non si risolvano nella prospettazione di un danno antigiuridico a cui non si accompagna alcun vantaggio indebito per l’extraneus.

Attraverso l’abuso induttivo, l’agente pubblico sfrutta, da una posizione di forza, la situazione di debolezza psicologica del privato, il quale presta acquiescenza alla richiesta non per evitare un danno antigiuridico, ma con la finalità di conseguire un vantaggio indebito per sé.

L’indotto — da cui l’ordinamento esige il dovere di resistere alle indebite pressioni del pubblico agente — è complice dell’induttore, con cui concorre nella lesione degli interessi dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, e in tanto è punibile, in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e con i valori costituzionali, in quanto si determina coscientemente e volontariamente per perseguire un proprio vantaggio indebito.

Il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, previsto dall’art. 319 quater c.p., integra un reato plurisoggettivo a concorso necessario.

Massime a cura dell’avv. Agostino Bellucci

SS.UU 12228_13

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza n. 10561 del 30 gennaio 2014 sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni societari, per reati tributari commessi dal legale rappresentante

PERSONA GIURIDICA – SOCIETÁ – REATO TRIBUTARIO COMMESSO DA ORGANI DELLA PERSONA GIURIDICA – SEQUESTRO FINALIZZATO ALLA CONFISCA DIRETTO NEI CONFRONTI DELLA SOCIETÁ – AMMISSIBILITÁ – CONDIZIONI.

Le Sezioni Unite con la sentenza 10561/14 hanno stabilito i seguenti importanti principi di diritto in merito al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni societari, per reati tributari commessi dal legale rappresentante.

È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica.

In tema di sequestro preventivo, nella nozione di profitto funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa (in particolare in tema di reati tributari può consistere anche nel risparmio di spesa derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni). La trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.

Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.

La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato.

(Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’indagato – che chiedeva che il sequestro disposto per equivalente su un suo bene, fosse invece rivolto direttamente nei confronti dell’ente – in quanto la somma di denaro non corrisposta all’erario, cioè il profitto del reato, era stata utilizzata dalla stessa società per il pagamento dei dipendenti e, quindi, non era più nella disponibilità della persona giuridica)

Massima a cura dell’avv. Giovanni Gigantino

SS.UU 10561_14

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Cassazione Penale Sezioni Unite, sentenza n. 4319, udienza del 28.11.2013 – depositata il 27.02.2014 Indagini Preliminari – Richiesta Archiviazione – Poteri del G.I.P. Imputazione coatta in ordine ad altri fatti costituenti reato a carico del medesimo soggetto indagato o di altri soggetti non indagati – abnormità – sussistenza

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in riferimento al potere di controllo attribuito al G.I.P. in merito all’operato investigativo del P.M., ex art. 409, 4 e 5 comma, c.p.p., nel caso di rigetto della richiesta di archiviazione avanzata da quest’ultimo, hanno affermato che il citato potere ha la funzione di garantire il rispetto del diritto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Affinché il G.I.P. eserciti correttamente la funzione di controllo, può disporre ulteriori indagini assegnando al P.M. un termine per il compimento e, qualora queste debbano essere estese a persone non indagate, sollecitarne l’iscrizione nel registro degli indagati; il G.I.P., inoltre, può ordinare al P.M. la formulazione dell’imputazione coatta, allorché ritenga che sussistano, allo stato degli atti investigativi, gli estremi per esercitare l’azione penale. Sono atti abnormi, invece, in quanto avulsi dal potere di controllo del G.I.P. e lesivi del diritto di difesa dell’indagato, l’ordine di imputazione coatta nei confronti di soggetti non indagati e l’ordine di imputazione coatta nei confronti dell’indagato per fatti diversi da quelli su cui si sono svolte le indagini.

Massima a cura dell’avv. Filippo Minardi   

SS.UU. 28\11\2013 n. 4319

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Cass. pen., Sez. Unite, Sent. (ud. 19-12-2013) 14-04-2014, n.16207 Prostituzione minorile

Con questa pronuncia, le Sezioni Unite della Suprema Corte – dopo aver ricostruito la storia della legislazione in materia di prostituzione ed evidenziato le distinzioni tra l’ipotesi in cui vi sia una “parte lesa” maggiorenne ovvero una “vittima” minorenne – hanno esaminato la nozione di «induzione alla prostituzione minorile», in relazione alle due fattispecie criminose previste e punite dall’art. 600 bis c.p. Nelle diverse formulazioni della norma richiamata, più volte rimaneggiata dal legislatore, sono sempre state distinte la condotta di chi induce alla prostituzione una persona di età inferiore ai diciotto anni e la condotta di chi compie atti sessuali con minorenni.

In particolare, alle Sezioni Unite è stato chiesto se il concetto giuridico di «induzione alla prostituzione minorile» possa dirsi integrato nell’ipotesi di relazione sessuale dietro compenso con un unico adulto, in assenza di intermediari e/o sfruttatori. Sul punto, chiarito che – a differenza della prostituzione di persona maggiorenne – nel caso dei minori è sempre impossibile considerare “libera” la scelta di scambiare la propria fisicità contro denaro e che, conseguentemente, il minore deve essere reputato sempre e comunque una vittima, la Suprema Corte ha statuito che la condotta di induzione alla prostituzione minorile di cui all’art. 600 bis, comma 1, c.p. – per essere penalmente rilevante – deve essere sganciata dall’occasione nella quale l’agente è parte del rapporto sessuale ed oggettivamente rivolta ad operare sulla prostituzione esercitata nei confronti di terzi. Dunque, perché si configuri il reato de quo, non deve esserci identità tra induttore e fruitore delle prestazioni sessuali, consistendo l’induzione nell’attività di chi determina, persuade o convince il minore a concedere il proprio corpo per pratiche sessuali da tenere non con il persuasore, ma con terzi che non si identifichino con l’induttore. Il cliente mero fruitore del sesso a pagamento, invece, sarà punibile ai sensi del comma 2 della medesima norma incriminatrice.

In conclusione, le Sezioni Unite, rispetto al quesito di diritto formulato dalla sezione rimettente, hanno ritenuto configurabile l’ipotesi delittuosa di induzione alla prostituzione minorile in presenza di una promessa o dazione di denaro o altra utilità dotata di valenza persuasiva tale da spingere il minore ad effettuare prestazioni sessuali a favore di terzi; non potrà, invece, ritenersi sussistente tale reato quando la promessa o dazione di denaro o altra utilità miri a convincere il minore ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente col soggetto agente, il quale sarà, piuttosto, perseguibile per il reato di cui all’art. 600 bis, comma 2, c.p.

Massima a cura dell’avv. Carmela Bonaduce

Cassazione penale sez 16207.13

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Cass. Sez. VI sent. n. 36382\14 Voto di scambio politico-mafioso: definizione

sent. 36382.14 Sez. VI voto di scambio

La Sesta Sezione della Cassazione interviene sul delicato inquadramento del reato di cui all’art. 416 ter c.p. – Scambio elettorale politico mafioso – quale risultante dalla novella di cui alla legge 17 aprile 2014 n. 62. La Corte, dopo aver richiamato in motivazione l’iter parlamentare che ha condotto il legislatore verso la modifica normativa, ha affermato che “ai sensi del nuovo art. 416 ter c.p. le modalità di procacciamento dei voti debbono costituire oggetto del patto di scambio politico-mafioso, in funzione dell’esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso e che quest’ultimo si impegni a farvi ricorso ove necessario.

La Suprema Corte, in tal modo, ha delineato il rapporto tra la fattispecie di reato di cui all’art. 416 ter cp e e il reato di corruzione elettorale previsto dall’art. 96 d.p.r.361\57

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Sezioni Unite n. 16208 del 27 marzo 2014

cassazione

Il giudice di rinvio – che abbia individuato la violazione più grave in conformità a quanto stabilito dalla sentenza di annullamento della Cassazione pronunciata su ricorso del solo imputato – non viola il divieto di reformatio in peius quando, relativamente al reato continuato, apporti per uno dei reati-satellite un aumento maggiore rispetto a quello determinato dal primo giudice, purché la pena complessiva non sia maggiore.

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