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Rifiuto restituzione atti processuali al cliente da parte dell’avvocato in caso di mancato pagamento oneri professionali e art. 646 cp
Integra il reato di cui all’art. 646 cp il rifiuto da parte del professionista di restituire gli atti processuali al cliente, subordinando la consegna al pagamento degli onorari spettantigli per l’attività prestata?
Una recente ordinanza di archiviazione emessa dall’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Nocera Inferiore ha suscitato particolare interesse tra gli Avvocati del Foro locale (e non solo) sotto un duplice aspetto: quello di operatori del diritto e quello di possibili soggetti agenti.
L’ordinanza de qua, infatti, è stata pronunciata nell’ambito di un procedimento che vedeva coinvolto – in qualità di indagato per il reato di appropriazione indebita – un avvocato il quale, in seguito alla revoca del mandato da parte di una propria cliente che stava assistendo in un giudizio dinanzi al Tribunale civile, aveva trattenuto gli atti processuali, subordinando la consegna al pagamento degli onorari spettantigli per l’attività defensionale prestata nel medesimo procedimento, nonostante avesse ricevuto reiterati inviti e diffide a restituire la produzione di parte e tutta la documentazione consegnatagli in occasione del conferimento dell’incarico.
Nel provvedimento in esame il G.I.P. dà atto che l’indagato non ha contestato la ricostruzione dei fatti offerta dalla querelante e che, anzi, tale circostanza è confermata dalla corrispondenza intercorsa tra il legale e la sua cliente dalla quale si evince chiaramente che l’avvocato aveva condizionato la restituzione dell’incartamento processuale al pagamento dei compensi professionali, provvedendo, infine, a dare seguito alla istanza della cliente ad oltre due anni dalla prima richiesta, solo per effetto dell’intervento del Consiglio dell’Ordine.
Nonostante il Giudice abbia considerato pacifica la vicenda nei suoi termini fattuali, in punto di diritto ha condiviso la scelta del magistrato inquirente, determinatosi per la richiesta di archiviazione per insussistenza degli estremi del reato di cui all’art. 646 c.p.. In particolare, la decisione viene motivata richiamando l’orientamento della Suprema Corte secondo cui «il reato di appropriazione indebita non è integrato dalla condotta di chi abbia omesso la restituzione della cosa, allorquando l’agente abbia trattenuto la res a titolo precario a garanzia di un preteso diritto di credito, fatta salva l’ipotesi in cui il creditore abbia compiuto sul bene atti dispositivi che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà» (Cass.pen., sez. II, n.17295/2011; Cass.pen., sez. II, n.6080/2009), la qual cosa non sarebbe accaduta nel caso di specie, in quanto l’avvocato indagato avrebbe manifestato in più occasioni l’intenzione di restituire gli atti alla cliente, sia pure subordinatamente alla corresponsione degli onorari cui riteneva di aver diritto per le prestazioni svolte.
Deve, però, osservarsi che la giurisprudenza citata nell’ordinanza non si riferisce specificamente al rapporto intercorso tra professionista e cliente ma si è formata in giudizi relativi a tutt’altro tipo di relazioni tra possessore della cosa altrui e proprietario. Il pronunciamento del Gup nocerino, pertanto, non deve ritenersi espressione di un orientamento univoco e consolidato della Corte di Cassazione, potendosi, al contrario, rinvenire sentenze di segno opposto. Nella sentenza n.26820/2008, ad esempio, si afferma che «integra il reato di appropriazione indebita il rifiuto del professionista di restituire al cliente la documentazione ricevuta, in quanto costituisce un comportamento che eccede la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso». Per ciò che concerne, invece, la rilevanza assunta dalla intenzione di garantire un preteso diritto di credito, la medesima Corte ha affermato che «in tema di appropriazione indebita, il diritto di ritenzione esercitato sul bene altrui non ha efficacia scriminante se il credito che si intende tutelare non è né liquido né esigibile» (Cass.pen., sez. II, n.45992/2007).
In senso contrario alla motivazione adottata dal G.I.P. di Nocera Inferiore milita, altresì, l’opinione della dottrina che, collocando la ritenzione della cosa altrui tra le forme tipiche di manifestazione del reato in parola, ritiene integrata la appropriazione indebita dalla condotta del possessore che opponga alla richiesta di restituzione un rifiuto immotivato, pretestuoso o comunque non sostenuto da valide ragioni.
Può, dunque, sostenersi che il diritto del professionista di ottenere la corresponsione dei compensi per l’attività espletata in favore del proprio assistito sia garantito da altri mezzi di tutela, per cui la renitenza alla restituzione del fascicolo processuale o, comunque, la sua subordinazione al pagamento degli onorari, non può rientrare nel concetto di “valida ragione” al quale la giurisprudenza riconosce efficacia scriminante.
L’orientamento restrittivo trova, oltretutto, un solido ancoraggio nell’art. 42 del Codice Deontologico Forense nel quale, sancito l’obbligo del professionista a restituire, senza ritardo, alla parte assistita la documentazione dalla stessa ricevuta per l’espletamento del mandato quando questa ne faccia richiesta, riconosce allo stesso il diritto di trattenere copia della documentazione, anche senza il consenso della parte assistita, quando ciò sia necessario ai fini della liquidazione del compenso e non oltre l’avvenuto pagamento.
Deve, infine, osservarsi che – laddove si consolidasse il principio della irrilevanza penale del comportamento del difensore che, avuta notizia della revoca del mandato, trattenga presso di sé l’incartamento processuale del cliente fino al momento del ricevimento dei propri onorari, si correrebbe il rischio di giustificare, fino addirittura a legittimare, tale odiosa prassi, sicuramente confliggente con i principi cui l’Avvocato deve ispirarsi ed attenersi nell’espletamento della propria attività professionale.
Parere a cura dell’avv. Carmela Bonaduce
Paolo Troisi – La flessibilità del giudicato
Riceviamo e Pubblichiamo il gradito contributo del Prof. Avv. Paolo Trosi sul tema della flessibilità del giudicato, oggetto dell’incontro di studi tenuto in data 23 aprile 2015 presso il STC di Cava de’ Tirreni nell’ambito dell’ VIII Corso di formazione organizzato dall’ISPEN.
Troisi – La flessibilità del giudicato penale nella recente evoluzione giurisprudenziale
Sent. n. 85 del 10 giugno 2014 CNF sui limiti del diritto di difesa
Il diritto di difesa, certamente ampio e rigoroso in ordine al dovere di critica, anche severa, alla decisione giudiziale in occasione della proposizione dell’atto di impugnazione, che implica la necessità di porre in evidenza ogni carenza motivazionale, non deve comportare, però, offese e insinuazioni di fatti penalmente rilevanti sul giudice e la controparte.
Tale principio è stato affermato nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, datata 10 giugno 2014, n. 85, da cui può trarsi la seguente massima : Nell’ambito della propria attività difensiva, l’avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con ogni rigore utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone e ciò massimamente nella fase dell’impugnazione, atto diretto a criticare anche severamente una precedente decisione giudiziale e ciò rappresentando con la maggiore efficacia possibile la carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Tuttavia, il diritto della difesa incontra un limite insuperabile nella civile convivenza, nel diritto della controparte o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato: soggetti nei confronti dei quali non devono essere utilizzate espressioni dirette consapevolmente ad insinuare la esistenza di condotte illecite o la violazione del fondamentale dovere di imparzialità, dovendosi mantenere con il giudice un rapporto improntato a dignità e decoro sia con riferimento alla persona del giudicante che al suo operato e alla funzione esercitata; l’esercizio del diritto di critica non deve mai travalicare in una censurabile deplorazione dell’operato del difensore, delle controparti e del giudicante.
massima a cura dell’avv. Marco Salerno
Art. 671 cpp. patteggiamento in continuazione con sentenza passata in giudicato per reato meno grave rispetto a quello per cui si procede.
Il parere professionale svolto dall’avv. Fabio Sorà, pubblicato nella Sezione COMMENTI, si riferisce alla soluzione di un caso pratico risolto dalla prassi. I quesiti posti, cui è stata data risposta affermativa, sono i seguenti:
- È possibile l’unificazione tra uno o più reati anche quando il reato della sentenza passata in giudicato sia meno grave rispetto a quello oggetto di giudizio pendente?
- E’ possibile ricorrere al predetto istituto anche quando il reato per cui si procede è stato commesso successivamente al passaggio in giudicato della sentenza emessa per il reato che s’intende porre in continuazione?
- 671 patteggiamento in continuazione
Art. 2 D.Lvo 74/2000 (cd false fatturazioni) – responsabilità precedente amministratore – commento avv. Fabio Sorà
Pubblichiamo un commento dell’avv. Fabio Sorà sulla sentenza n. 2402\2014 pronunciata dalla Corte di appello salernitana in materia di violazione dell’art. 2 del D.Lvo 74\2000.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di appello riguarda un amministratore di una società a responsabilità limitata, in carica fino al 10.09.06, ritenuto penalmente responsabile in concorso con il rappresentate legale pro tempore, del reato di fraudolenta dichiarazione mediante uso di fatture per prestazioni inesistenti di cui all’art. 2 D.Lvo 74/2000 (cd false fatturazioni) indicate nella dichiarazione dei redditi presentata all’Agenzia delle Entrate il 26.09.07, quando era in carica, da circa un anno, un altro legale rappresentate.
Avv. Marco Salerno